Il Pontificato
Durante i tredici anni e mezzo del suo pontificato (che durò dal 3 settembre 590 al 12 marzo 604), Gregorio scrisse moltissime lettere,
che furono registrate dalla cancelleria pontificia: a noi ne sono pervenute 857, ma si può ragionevolmente pensare che esse
rappresentino soltanto una piccola parte della sua corrispondenza, che senza dubbio è un documento prezioso riguardo agli avvenimenti
dell'epoca.
Sappiamo infatti che in quel periodo l'Italia viveva una situazione critica per l'invasione dei Longobardi e che per ben due volte
Gregorio salvò Roma dalla loro prepotenza soltanto con la sua parola, cioè adoperando l'arte del negoziato.
Mentre l’imperatore di Bisanzio considerava i Longobardi razziatori da sottomettere o sterminare, Gregorio ebbe l'altissimo merito
di vedere in loro un popolo da guadagnare alla fede e alla causa della pace, volle essere vescovo dei Romani e dei Longobardi
volgendo i suoi interventi unicamente alla difesa dei miseri e alla promozione della pace.
Egli spesso dovette prendere le difese dei deboli anche contro i Bizantini, che non erano certo meno colpevoli dei Longobardi:
l'esosità del fisco bizantino era tale che i contribuenti a volte si videro costretti, per poter pagare i tributi, a vendere schiavi
perfino i propri figli.
Gregorio esigeva dagli uomini di Chiesa sincero rispetto per le leggi dello Stato e leale attuazione dei loro doveri civici.
Egli fu davvero quell'amministratore fedele e saggio messo dal Signore a capo dei suoi servi perché, a tempo opportuno, desse a
ciascuno ciò di cui aveva bisogno. La sua capacità amministrativa rese possibile la stessa sopravvivenza di Roma, poiché il Papa
attinse alle risorse della Chiesa per sfamare e difendere la città. Egli era giunto alla convinzione che la terra appartiene a tutti,
per cui l'elemosina fatta con la rendita della terra non è che una restituzione.
Nella “Regola Pastorale” si esprime così: “.... Quando si dà ai poveri ciò di cui essi hanno stretto bisogno, si compie
un atto di restituzione più che un dono, si rende omaggio alla giustizia più che compiere un atto di generosità”.
I suoi ideali erano: tutelare la giustizia e rispettare la libertà; (ovviamente non considerava opera di misericordia ciò che è dovuto
per giustizia). Nel Commento a Giobbe dice: “... Dona in modo più autentico colui che mentre elargisce il dono
a chi è nell'afflizione, ne assume anche lo stato d'animo; cioè prima fa sua la sofferenza
di lui e, allora, lo aiuta soccorrendone il bisogno”.
Gregorio tutti i giorni inviava per la città carri di vettovaglie cotte per i deboli e per gli infermi; invitava alla sua
tavola dodici pellegrini, a cui prima del pranzo lavava egli stesso le mani. Una pia leggenda narra che una volta
Gregorio vide sedere a mensa un tredicesimo commensale che si rivelò come un angelo del Signore venuto a dire quanto fosse
gradita a Dio l'opera di Gregorio. (Certamente P. Veronese s'ispirò a tale leggenda nella sua “Cena di S. Gregorio Magno”,
magnifica tela che si trova a Monte Berico).
Un giorno fu trovato morto sotto un portico un poveretto e si disse che fosse morto di fame. Fu tale il dolore del Papa,
ch’egli si astenne per alcuni giorni dalla celebrazione dei divini misteri, come se lo avesse ucciso con le proprie mani.
Gregorio operò per la giustizia lasciandosi vincere dalla pietà. Tra giustizia e carità egli vide un legame inscindibile:
se non è fondata sulla giustizia, la carità è corrotta. A Giustino, pretore della Sicilia, scrisse fra l'altro:
“... Non succeda che per qualche prospettiva di lucro siate trascinato all'ingiustizia: nè minacce nè amicizie riescano
mai a distogliervi dalla linea della rettitudine ...”
A Massimiano, vescovo di Siracusa, scrisse: “... Se trascuriamo di occuparci di ciò che viene commesso contro la legge,
lasciamo aperta la strada a che vengano commesse altre ingiustizie”.
Di fronte alle ingiustizie, che vide perpetrare intorno a sé, Gregorio non rimase inerte.
Intervenne subito a favore degli oppressi, tentando anzitutto la via amichevole.
Se è vero che è con la forza del Vangelo che lo Spirito fa ringiovanire la Chiesa e continuamente
la rinnova (così diceva già S. Ireneo), Gregorio è convinto che la riforma della Chiesa comincia
con la riscoperta del Vangelo; perciò il primo compito
del pastore è quello di annunziare il Vangelo, di gridarlo dai tetti,
con la vita prima che con la parola. Quando Gregorio fu eletto papa la Chiesa era
“come una fragile barca agitata da tanto grave tempesta da sembrare prossima al naufragio”
e se la Chiesa aveva un bisogno imperioso di veri pastori Gregorio, rendendosene conto,
offri nella sua persona questa grande novità: luce nelle dense tenebre di quell'ora,
egli aprì alla Chiesa un nuovo cammino e offrì un'autentica speranza.
Ricevette pure l'appellativo di “consul Del” (console di Dio), perché era convinto che
il compito della Chiesa è innanzitutto quello di plasmare i costumi dei cristiani, s
ostenere la fede degli umili e diffondere il Vangelo, al fine d'incamminare l'umanità verso il Regno di Dio.
E' chiaro che per Gregorio la sollecitudine per tutte le Chiese comportava in primo luogo la scelta dei vescovi
e il rapporto costante con loro. Per delineare la figura ideale del pastore, scrisse la “Regola Pastorale”,
in cui dice tra l'altro: “Il pastore è discreto nel silenzio, utile con la parola, vicino a tutti con la carità,
superiore ad ognuno per l'abitudine alla contemplazione; con umiltà vicino a chi compie il bene, con forza e per
amore della giustizia schierato contro le malvagità, attento a non indebolire la vita interiore sotto l'urgenza delle
occupazioni esteriori e a non trascurare gli impegni temporali col pretesto della vita interiore”.
Per questo rimproverò il vescovo di Ravenna Mariniano scrivendo che non doveva accontentarsi di leggere
la Bibbia e di pregare, standosene tranquillo, lontano da tutto; ma doveva allargare la mano,
soccorrere i bisogni di chi soffriva, fare propria l'indigenza altrui, perché se non faceva questo,
invano portava il nome di vescovo. Per Gregorio, infatti, “la carità raggiunge le vette quando scende con gesto d'amore alle infime necessità dei poveri, e quanto è maggiore la benevolenza nel piegarsi verso gli umili, tanto più rapido è il volo verso Dio”.
Ma i rimproveri non offuscarono l'amicizia di Gregorio verso Mariniano; infatti, quando il vescovo di Ravenna si ammalò gravemente,
il Papa lo invitò a Roma: “... sarai mio ospite, non dovrai pensare a nulla, io stesso farò del mio meglio per curarti e avrai
da questa Chiesa ogni attenzione...”.
In tale lettera Gregorio, sempre assillato dalle preoccupazioni pastorali e sempre ammalato lui stesso,
rivela la tenerezza del suo cuore.
Il Concilio Vaticano II ha riflettuto molto sulla vocazione dei laici e sull'universale chiamata
alla santità di tutti i membri del popolo di Dio. Gregorio dimostrò una particolare attenzione ai
laici e ai loro problemi temporali ed eterni.
Tra i 400 corrispondenti del suo epistolario, moltissimi
erano laici; egli si rivelò nei loro confronti un eccellente maestro di spiritualità, pur non trascurando
mai gli aspetti concreti e più umili della vita di tutti i giorni. Dimostrò soprattutto un profondo rispetto per la
vocazione di ciascuno. Raccomandava: “… Ogni fedele, se vuole. che non si estingua in lui la fiamma della carità,
deve raccogliere ogni giorno sia gli esempi dei padri, sia gli insegnamenti della Sacra Scrittura”.
Nel 595 all'amico Teodoro di Costantinopoli, medico dell'imperatore, scrisse, invitandolo a non lasciarsi sopraffare
dalle eccessive occupazioni che gl'impedivano di leggere e meditare ogni giorno la parola di Dio: “...
Impara a conoscere nelle parole di Dio il cuore di Dio .... Che cos'è infatti la Sacra scrittura se non una lettera
di Dio onnipotente alla sua creatura?…” Una lettera d'amore che non si può interpretare, se non si legge col medesimo
amore con cui è stata scritta.
Nel 597, ad un giovane, che chiedeva la sua raccomandazione per poter fare carriera entrando al
servizio dell'imperatore, il Papa scrisse: “Ti esorto a condurre una vita quieta e tranquilla,
ad attendere alla “lectio divina”, a meditare le parole celesti, infiammandoti di amore per l'eternità”.
Gregorio era molto sensibile all'amicizia. Aveva amici un po' dappertutto e di tutte le classi sociali.
Merita accennare a quanto scrisse a Clementina, patrizia di Napoli, fra il dicembre 598 e il gennaio 599,
per esortarla al perdono: “Una cosa che mi è stata riferita io non devo tacere, perché non ci sia una diminuzione
di carità nel tacere ciò che si deve dire per correggerlo. Mi è stato detto che quando qualcuno vi ha offeso,
voi ne mantenete il cruccio senza remissione. Se questo è vero, poiché quanto vi voglio bene altrettanto ne sono
afflitto, vi chiedo di rifiutare nobilmente questo difetto e non lasciate crescere questo seme del nemico nella
messe delle buone opere. Ricordatevi le parole del Padre Nostro e non valga presso di voi più la colpa che il perdono.
La vostra bontà sia superiore all'offesa e il perdono giovi anche al colpevole, poiché una persistente asprezza potrebbe
fargli perdere la fede. ...Spesso ha maggior valore punitivo un perdono discreto che la severità della punizione...
Questi ammonimenti che vi diamo con affetto paterno per la vostra anima, accoglieteli con la carità con cui vengono detti
e prendeteli per la vostra utilità”.
Se è vero che “c'è più gioia a dare che a ricevere”, tuttavia certe lettere di Gregorio documentano anche la gioia che
c'è nello scambio di doni: egli, come era lieto di fare doni in segno di amicizia, altrettanto era lieto di riceverli.
Valga per tutte la lettera che Gregorio scrisse all'amico Anastasio d'Antiochia per il dono di alcune confezioni aromatiche:
“Abbiamo ricevuto, con quel cuore che dovevamo il vostro dono, e ci siamo deliziati del suo buon odore e sapore,
ringraziandone Iddio, poiché tutte le cose che voi fate, dite o mandate in dono sono soavi e gustose”.
Sapendo che Gregorio era un asceta rigoroso, qui possiamo costatare come il suo ascetismo non fosse mai
privo del senso della misura e fosse sempre ricco di umanità e di una letizia contenuta ma radiosa.
La Chiesa viveva allora una situazione, che definire grave è puro eufemismo: la piaga peggiore era la simonia;
considerata da Gregorio la prima eresia sorta nella Chiesa e come il sacrilegio più esecrabile, perché era la
pretesa di “vendere lo Spirito Santo che ha redento gli uomini; e colui che compra il dono di Dio è disposto a vendere tutto”. Non era infrequente infatti il caso di laici che si improvvisavano pastori e l'episcopato, nel regno dei Franchi, si otteneva con intrighi e denaro. Gregorio decise di estirpare questa pianta maledetta; s'impegnò con tutte le sue forze e chiese pure l'appoggio della regina Brunilde, che stimava; purtroppo non visse tanto da veder realizzato questo progetto. Dovette far fronte anche a gravissimi problemi non soltanto riguardo all'arianesimo, ma anche a uno scisma sorto proprio all’interno del cattolicesimo (il famoso scisma dei Tre capitoli).
Abbiamo già dato un'idea di quella che è stata la vita di Gregorio Magno nei tragici tempi delle invasioni barbariche; di
proposito quì ci limitiamo ad accennare soltanto a questi grossi scogli ch'egli dovette affrontare. D'altra parte, voler
approfondire questi temi francamente ci sembra eccessivo nel quadro delle finalità di questo lavoro, perché riteniamo lo possa fare chiunque ne senta la necessità.
Comunque, se è vero che nessuno dev'essere costretto a credere e a nessuno si può impedire di credere, è altrettanto vero
che nessuno può sottrarsi all’obbligo di cercare la verità per conformarvi la propria vita; e la Chiesa da parte
sua ha il dovere di rendere testimonianza alla verità che in Cristo sì è rivelata, senza paura e senza scendere
a compromessi; di più, la Chiesa dev’essere disposta a soffrire per la verità. La sua speranza dev'essere quella dei
poveri, così come il suo potere non dev’essere altro che quello dell’amore e il suo compito quello del servizio.
Rimane esemplare la maniera propria di Gregorio di concepire i rapporti tra la Chiesa e lo Stato. Egli era convinto
che “a chi governa è concesso dall'alto il potere su tutti gli uomini, affinché il regno terreno sia un servizio
subordinato al regno celeste”. Gregorio riuscì ad armonizzare l'esercizio della sua missione con la sua posizione
di suddito leale dell'imperatore: solo dove c'era di mezzo la fede, egli non cedeva mai; per il resto praticava una
tolleranza che era autentica sapienza evangelica.
L'umiltà di Gregorio era pari al senso che aveva della sua dignità. A proposito di questa virtù ecco quanto scrisse nel
giugno del 595 a Giovanni, patriarca di Costantinopoli, richiamando l'esempio del figlio di Dio “il quale assunse
l'aspetto della nostra debolezza… sopportò il disprezzo, l’ignominia e i tormenti della Passione a quest’unico fine,
per insegnare all’uomo, lui Dio umile, a non essere superbo. Quanto è grande dunque la virtù dell’umiltà,
se per insegnare questa sola in modo autentico, Colui che è grande senza confronto si fece piccolo fino alla Passione.
Poichè la superbia del diavolo fu l'origine della nostra perdizione, fu escogitato come rimedio della nostra redenzione
l'umiltà di Dio”.
Al patriarca di Alessandria scrisse tra l’altro: “L'amore stesso ha la sua autorità ed è assolutamente sicuro,
perché non potrà recar danno in tutto ciò che per amore ha deciso di fare”.
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